“Riforma” delle Province: ad andarsene non sono 500 poltrone ma la Democrazia

Con un’imposizione antidemocratica e palesemente incostituzionale, milioni di Italiani vengono privati del diritto di scegliersi il Sindaco metropolitano. Guarda caso, si tratta di Sindaci di sinistra e di Città fortemente indebitate

Intervento in Aula nella discussione della questione di fiducia al disegno di legge Delrio per la “riforma delle Province”

Signor Presidente,

il 18 novembre 1925, nel nostro Paese fu approvato un provvedimento che avrebbe dovuto essere epocale perché – in ritardo rispetto ad alcuni Paesi, in anticipo rispetto ad altri – fu concesso il voto alle donne per le elezioni amministrative. (Qualche giorno fa abbiamo fatto lunghe dispute su un regime di preferenze e di voto – non per le pari opportunità alle elezioni, ma per fare in modo che il risultato delle elezioni europee fosse di un certo tipo per quanto riguarda l’appartenenza degli eletti ai due sessi.) Peccato che questa legge del 18 novembre 1925 non fu mai applicata perché, dopo non molti mesi, lo stesso regime fascista abolì il voto per le elezioni amministrative, per cui tutti gli Italiani di tutti i Comuni si trovarono un sindaco che assumeva il nome di «podestà» – per distinguerlo giustamente dal sindaco, che puzzava un po’ troppo di elezioni, quelle che Mussolini definiva i «ludi cartacei». Così, tutti gli Italiani si trovarono privati della possibilità di eleggere il proprio sindaco. Sicuramente alcuni di questi podestà hanno fatto del bene nei loro Comuni; però la democrazia è un’altra cosa. Vent’anni dopo quella data che citavo – anzi, un po’ prima di vent’anni dopo – decine di migliaia di italiani e centinaia di migliaia di soldati stranieri vennero in Italia per ripristinare la libertà e la democrazia.

Noi oggi, democrazia ormai matura, cosa facciamo? Cominciamo a privare – cominciamo, perché tutti diranno che è un buon inizio – gli abitanti dei Comuni che fanno parte di questa cosa chiamata Città metropolitana – che poi sono nove Province, cui si aggiungeranno quelle delle Regioni a statuto autonomo – del diritto di scegliere una delle figure che governerà, con competenze molto importanti, sul loro territorio. Non solo li priviamo del diritto di voto diretto, ma anche del diritto di voto indiretto. Gli abitanti di tutta Italia avranno le Province, perché qui oggi, nonostante i titoli e gli slogan, non stiamo abolendo le Province: stiamo abolendo le elezioni provinciali, che si terranno sì, ma riservate agli eletti nei Comuni. Per cui i Cittadini tutti saranno privati del diritto di voto diretto; però, per lo meno, ci sarà un diritto di voto indiretto.

Se non mi piace il mio Presidente di Provincia, potrò sperare, di qui a cinque anni, di eleggere un diverso consigliere comunale o un diverso sindaco, che, di lì a tre o quattro anni, quando ci saranno le elezioni provinciali riservate a lor signori, potrà cambiare quel Presidente di Provincia. Ma se vivo, come vivo, in una Provincia che viene ribattezzata Città metropolitana e rinforzata nei suoi poteri, questo potere non ce l’ho – né diretto, né indiretto. Il mio sindaco metropolitano – devo dire che mi fa abbastanza ridere questa espressione – viene scelto da altri: i signori rispettabilissimi cittadini del Comune di Torino. E questo varrà per la Provincia di Milano, di Roma e di numerosissime altre città metropolitane, che saranno tanto numerose in Italia quanto in tutto il resto d’Europa messo insieme, neanche fossimo l’Unione Sovietica (oggi dovrei dire Russia, ma forse è più appropriato Unione Sovietica). Gli abitanti di questi Comuni saranno completamente privati del diritto di scegliersi il sindaco metropolitano; lo sceglieranno altri. Anzi, neanche quegli altri lo scelgono perché, quando questa legge entrerà in vigore, il sindaco metropolitano sarà un signore eletto dai cittadini del capoluogo non per fare il presidente di Provincia (perché parliamo in italiano), ma per fare il sindaco di quella Città, per badare ai problemi di quella Città.

Questo sindaco ha sicuramente promesso di passare tutti i giorni della settimana a studiare i problemi della città, di questo quartiere, di quest’altro quartiere, di questo servizio, di questa strada, di questa periferia. Un sindaco ha già parecchio da fare – tant’è vero che sappiamo che il noto sindaco di Firenze non poteva stare fuori città, dov’era casa sua, ma doveva avere un appartamento in città (con qualche implicazione con l’affitto di questo appartamento, ma lasciamo stare). Bene, costui, dopo aver promesso ai suoi cittadini e suoi elettori, che dovrebbero essere sovrani nel nostro Paese, di fare una cosa, sarà costretto a fare una di queste due cose.

In primo luogo potrà tradire la parola data e occuparsi anche della Provincia, che nel caso della mia Provincia (Torino) ha 2.200.000 abitanti – più di diverse Regioni. Sono 1,5 milioni contro gli 800.000 che vivono nel capoluogo, quindi potrebbe occuparsi un po’ anche del milione e mezzo di sudditi che stanno fuori. Parlo di “sudditi” perché non hanno titolo di poterlo eleggere; è come il re: ti trovi quello lì perché era figlio di quell’altro, e noi ce lo troviamo lì perché i signori cittadini della città di Torino hanno deciso di eleggerlo. Benissimo, speriamo che abbiano scelto bene.

Lui potrebbe occuparsi dei problemi della Provincia ma, se lo fa, i suoi consiglieri comunali avrebbero tutti i diritti di farlo cadere perché – mentre io cittadino della Provincia, neanche se fossi d’accordo con tutti gli abitanti della Provincia, potrei farlo cadere o cambiarlo e quando arriveranno le elezioni di Torino non potrò cambiarlo perché sono del tutto ininfluente – i 50 consiglieri comunali di Torino potranno a maggioranza farlo cadere. Notate bene che questo consiglio metropolitano, che verrà eletto secondo le mobilità di questa legge, neppure all’unanimità può far cadere il sindaco metropolitano, per cui questi che bene o male (molto male perché sono frutto di un voto di secondo grado mediato) sono espressione dell’intera popolazione della Provincia, sono poco più che un organo consultivo e non possono far cadere il sindaco metropolitano; invece, 50 consiglieri del Comune capoluogo possono farlo cadere e magari lo vogliono far cadere perché si occupa – guarda un po’ – dei problemi di questi coloni degli altri Comuni della Provincia, anziché occuparsi dei problemi della città, come peraltro ha promesso.

Al di là delle dispute se costa di più o di meno, intanto la Corte dei Conti ha affermato che c’è il pericolo – anzi, è chiaro – che almeno nel breve termine c’è un aumento di costi. La cosa sicura è che ci sarà un aumento dei costi in termini di lavoro perché, se anche tutti questi organismi che vengono fatti nascere (la conferenza metropolitana, il consiglio metropolitano, la conferenza statutaria e quant’altro) non costano nulla, ci sarà pure il funzionario e l’impiegato che deve occuparsene; e questi, anziché seguire i problemi del territorio, dovrà seguire quelli della conferenza metropolitana, della conferenza statutaria, del consiglio metropolitano. Di gratis non c’è nulla: c’è un costo che andrà a scapito dell’amministrazione del Comune, della Provincia o della città metropolitana.

Questo viene fatto. Sembrerebbe perlomeno una cosa sventata e invece non lo è, perché (è anche colpa nostra che abbiamo perso le elezioni) sta di fatto che – guarda caso – i sindaci di queste città metropolitane, dei Comuni capoluogo, sono tutti di sinistra e – guarda caso – tutte queste città hanno un indebitamento piuttosto importante. Dunque scaricheranno il debito di questi capoluoghi sugli altri Comuni della Provincia, con nessuna garanzia se non affidandosi al buon cuore – anzi, peggio, direi al buon cuore, ma quasi all’autolesionismo – di questo futuro sindaco metropolitano, sperando che si occupi anche del resto della Provincia. Ma perché il sindaco metropolitano dovrebbe occuparsi del resto della Provincia quando viene eletto dal centro, dal capoluogo?

Ha detto il sottosegretario Bressa in Commissione che la legge offre la possibilità di stabilire l’elezione diretta. Sì, la offre a condizioni che, in primo luogo, sono demenziali e, in secondo luogo, non si verificheranno mai – quali, per esempio, il fatto che la città capoluogo dovrebbe decidere di spezzettarsi in due, tre o più Comuni e allora, a quel punto, sarebbe possibile l’elezione diretta. Diciamo che a quel punto sarebbe impossibile che il Comune capoluogo avesse un sindaco, visto che non esisterebbe più, pertanto è una condizione impossibile.

Nota bene che c’è una postilla: quest’obbligo c’è, per esempio, per Torino con i suoi 120 chilometri quadrati, ma non c’è per Roma, che ha un’estensione di 1.285 chilometri quadrati ed è dieci volte più grande. Allora, Roma, dieci volte più grande e tre volte più popolosa, non si dovrebbe spezzettare, mentre Torino, molto ma molto più piccola, dovrebbe spezzettarsi. E perché dovrebbe farlo? Perché il suo sindaco non sia anche sindaco della città metropolitana e, dunque, magari non possa usare le risorse che dovrebbero servire all’intera Provincia per sanare il debito o il deficit della sua città? Ma quando mai?

Siamo di fronte ad una vera e propria imposizione irrazionale, antidemocratica e palesemente incostituzionale. Incostituzionale perché siamo una Repubblica democratica e la sovranità appartiene al Popolo e in questo sistema il decentramento è un aspetto fondamentale. Non è che il nostro Stato è democratico solo a livello centrale e il decentramento può non avere carattere democratico; quest’ultimo deve essere altrettanto democratico.

Ricordo che l’VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione sancisce che l’elezione degli organi provinciali sono popolari e sono elezioni, soprattutto. Qui invece non parliamo di elezioni di secondo grado: si dice che non ci sarà proprio alcuna elezione. I sindaci dei Comuni capoluogo delle città metropolitane diventeranno sindaci di altre centinaia di Comuni senza che siano svolte elezioni. Sarebbe come stabilire che Roberto Maroni, in quanto Presidente della Regione più popolosa del nostro Paese, di diritto è Presidente della Repubblica e magari anche Presidente del Consiglio – visto che il Presidente di Regione assomma a livello regionale le prerogative che a livello nazionale appartengono al Presidente della Repubblica e a quello del Consiglio. Sarebbe una soluzione: Roberto Maroni Presidente della Repubblica non perché piace agli Italiani, ma perché è stato votato dai lombardi Presidente della loro Regione, e allora si può fare che sia anche il Presidente della Repubblica italiana. Si risparmierebbero dei soldi, ma non saremmo più in democrazia.

Di fronte a questa democrazia centralizzata mi è venuto in mente – oltre al 1925 che ho citato prima – ciò che accadeva molti secoli fa, quando Roma governava territori sempre più vasti. Chi decideva, però, chi dovesse comandare Roma? Lo decidevano i romani, peraltro a fronte di enormi limitazioni perché era sì una repubblica democratica ma lo era assai parzialmente, in modo molto mediato (un po’ come la si vuole fare adesso), e solo coloro che risiedevano nel pomerio, all’interno della città di Roma, potevano votare. Si tratta comunque di una condizione molto vecchia perché poi ben presto, in un’epoca in cui non c’era questa grande sensibilità democratica e per certo non c’era la nostra Costituzione, si capì che era un sistema che non poteva reggere: i romani non potevano continuare a decidere per tutta la penisola italica e magari per l’intero bacino del Mediterraneo. Per cui, passo dopo passo, la cittadinanza, e dunque quella parvenza di diritto di voto che si esercitava nella repubblica romana (non parlo di quella del XIX secolo ma di quella fondata da Lucio Giunio Bruto nel 509 a. C.) non poteva continuare ad essere così applicato; pertanto, il diritto di voto fu esteso anche ai cittadini che risiedevano al di fuori della città di Roma.

Ora torniamo a quell’epoca, alla Roma puramente imperialista – sia pure in erba – in cui i provinciales sono deprivati di qualunque diritto. È un po’ quello che succede con un certo modo di concepire l’Europa: chi comanda sul serio è il governo tedesco, che però non è eletto da tutti gli europei ma solo dai cittadini tedeschi. I cittadini tedeschi eleggono (giustamente per le loro convenienze) un certo Governo, il quale Governo – al momento presieduto dalla signora Merkel – fa gli interessi della Germania, tranquillamente a scapito e a spese di tanti altri Paesi, e di fatto noi ci troviamo a subire questa situazione perché non possiamo influire sulle decisioni della popolazione tedesca. Non è che se preferiamo un candidato tedesco possiamo votare per lui, perché noi votiamo per i candidati che si presentano alle elezioni in Italia; votiamo per i candidati al Parlamento europeo ma non per quelli che si presentano alle elezioni tedesche. Con questo provvedimento si vuole trasferire a livello provinciale questo sistema.

Si parlerà tanto di costi e di poltrone, ma l’aspetto fondamentale è che qui stiamo, o meglio state dicendo, Signori della maggioranza, che se si può le elezioni si fanno, se non si può non si fanno – indirette meglio che dirette – e, se è possibile, non si fa proprio alcuna elezione. Milioni di Italiani si troveranno esattamente nelle stesse condizioni imposte durante il fascismo: si troveranno un sindaco che non hanno scelto. Con una differenza: a quell’epoca si era nominati e non si doveva rendere conto a nessuno, se non al governo centrale, e dunque non c’erano preferenze per la Città o per la Provincia. Oggi, invece, il sindaco è eletto dalla Città e viene imposto alla Provincia; pertanto, nei confronti dei suoi elettori ha l’obbligo di tartassare gli abitanti della Provincia e offrire loro meno servizi possibili per rimpinguare le casse che sono state svuotate da anni di sprechi.

È veramente una cosa inaccettabile. Purtroppo, si parlerà assai poco di questo punto e molto di poltrone e di 500 euro che vanno e vengono, quando, invece, quello che se ne va è la democrazia.

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