“Impresa in un giorno”: le pratiche burocratiche che si sbrigavano prima ora si faranno dopo. Nel frattempo, si pagano tutte le imposte e i tributi fissi, indipendentemente dal reddito. Vi è l’anticipazione non dell’operatività dell’impresa ma unicamente della sua tassabilità
Intervento in Aula nella discussione del disegno di legge per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese
Signor Presidente,
i requisiti prescritti dalla Costituzione per l’emanazione di un decreto-legge sono la straordinaria necessità e urgenza delle norme che si vogliono introdurre nell’ordinamento.
In questo caso, non soltanto non sussistono in alcun modo tali requisiti in nessuno dei numerosi articoli e commi che costituiscono il decreto-legge in esame, ma addirittura diverse norme che per certi versi – se scritte meglio e dotate di maggiore contenuto e di meno apparenza – potrebbero essere positive, diventano confusionarie e generatrici di difficoltà di applicazione proprio per il fatto che, anziché essere introdotte attraverso una legge ordinaria, che è quanto la Costituzione stabilisce, vengono introdotte mediante un decreto-legge – con un meccanismo, quindi, che fa entrare in vigore le norme poche ore dopo che esse possono essere rese pubbliche e dunque conoscibili. Dico «possono» perché tutte le categorie interessate dal provvedimento come primo lavoro non leggono la Gazzetta Ufficiale ma svolgono l’attività che le caratterizza.
Di conseguenza, ci troviamo in una situazione in cui persino le norme che potrebbero essere positive diventano negative e quelle che intendono introdurre semplificazioni introducono complicazioni. Tali norme, proprio perché inserite da un giorno all’altro – anzi, da un’ora all’altra – finiscono per generare contenzioso e complicare proprio laddove volevano semplificare.
La mancanza di straordinaria necessità e urgenza viene poi addirittura autodenunciata a chiare lettere nel provvedimento stesso – in particolare, ad esempio, nell’articolo 3, il cui comma 1 introduce una norma che rappresenta soprattutto uno spot con il quale si dice «guardate cosa abbiamo fatto», mentre il comma 2 recita: «A decorrere dal trentesimo giorno successivo dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le offerte e i messaggi pubblicitari di cui al comma 1 sono sanzionati quali pubblicità ingannevole».
La stessa situazione troviamo nell’articolo 4: al comma 1 c’è lo spot, mentre il comma 2 recita: «I soggetti tenuti all’apposizione dell’indicazione di cui al comma 1» – sulla scadenza degli alimenti – «si adeguano alle prescrizioni del medesimo comma entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Centottanta giorni. Allora, non sarebbe stato meglio rispettare la Costituzione che si stira sempre a mano e della quale questa Maggioranza si è fatta paladina, naturalmente a parole e solo in modo strumentale, quando c’è stata la campagna referendaria? Non sarebbe forse stato meglio seguire quanto prescrive l’articolo 73 della Costituzione, che stabilisce che ordinariamente le leggi «entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione» in Gazzetta Ufficiale? Questo, evidentemente, concede a tutti i soggetti interessati il tempo di conoscere la norma, di adeguarla e, di conseguenza, di fare quanto in uno Stato di diritto la necessità della certezza del diritto dovrebbe imporre sempre. Invece no. Invece si vuole compiere una mossa pubblicitaria, un atto di immagine, facendo entrare in vigore tutto subito, salvo stabilire nell’immediato un’eccezione per una certa norma che entrerà in vigore dopo centottanta giorni. È un fatto grottesco. Si è battuto ogni record di abuso dello strumento del decreto‑legge.
Non contenti di ciò, questa Maggioranza e questo Governo – cito quest’ultimo perché il maggiore abuso è stato sicuramente compiuto alla Camera – fanno artificiosamente in modo di limitare al minimo la possibilità per il Senato di esaminare veramente il provvedimento, pieno di difetti ma, in ogni caso, indubitabilmente pieno di norme su numerosi argomenti.
Naturalmente, la Maggioranza farà riferimento all’ostruzionismo condotto alla Camera. Questo cosiddetto ostruzionismo ha fatto sì che ci sono volute due settimane per il passaggio in Aula. Due settimane, però, rappresentano perfettamente il tempo ordinario che è necessario impiegare, specialmente quando si vogliono introdurre in un provvedimento norme così varie e così complesse. Quindi, alla Camera sono state impiegate due settimane in Commissione e due settimane in Aula. Ci sarebbe un mese di tempo per il Senato per esaminare il decreto ed eventualmente, lavorando celermente, per introdurre le necessarie modificazioni al fine di consentire la loro entrata in vigore con una forma che abbia il contributo anche di questo ramo del Parlamento.
Invece no. È vero che alla Camera ci sono volute ben due settimane in Assemblea, tempo normalissimo, ma il fatto è che da quando, con la dovuta calma, il provvedimento è stato approvato in Commissione, il 21 febbraio, esso è stato tenuto fermo nel cassetto per la bellezza di sedici giorni. È stato approvato in Commissione alla Camera il 21 febbraio e l’esame in Aula alla Camera è iniziato il 9 marzo: sedici giorni che potevano essere utilmente impiegati per arrivare all’approvazione alla Camera e consentire al Senato di svolgere la funzione che la Costituzione gli assegna. Si tratta di un comportamento assolutamente inaccettabile, dettato da esigenze di immagine, per poter dire che si è fatta la «lenzuolata» – con questo bel termine che è stato inventato dal Ministro Bersani. Il meccanismo di questo decreto-legge è stato dettato da esigenze che nulla hanno a che fare con la buona legislazione. È stato dettato da ragioni di immagine, per la realizzazione di questa famosa «lenzuolata» che da varie settimane, prima ancora dell’emanazione del decreto-legge, veniva annunciata. In secondo luogo (movente ancora peggiore), è stato dettato dalla necessità di impedire al Senato di intervenire sul provvedimento. Per questo motivo abbiamo chiesto di portare in Aula il parere sui presupposti.
Sul contenuto vi è molto da dire. Si tratta in gran parte proprio di quello che il provvedimento afferma di voler combattere: pubblicità ingannevole. L’abolizione dei costi di ricarica per i telefoni cellulari è semplicemente una questione di rimodulazione delle tariffe. Non vi sarà più il costo di ricarica ma ci saranno altri costi, che verranno caricati su tutti gli utenti – anche quelli che prima, ad esempio, sfuggivano in parte ai costi di ricarica, acquistando ricariche di importo maggiore.
Un’altra pubblicità ingannevole è contenuta nell’articolo in cui si introduce la cosiddetta, apparente, possibilità di aprire un’impresa in un giorno solo. Certo, si può aprire un’impresa in un giorno solo – salvo tutti i problemi pratici e burocratici che si incontrano nella realtà – ma tutte le pratiche burocratiche che in passato si sbrigavano prima ancora di aprire un’azienda e poter essere operativi ora si faranno dopo. In apparenza si apre l’azienda in un solo giorno, poi si percorre tutto l’iter che prima si faceva anticipatamente e infine, forse, si potrà iniziare a operare. Nel frattempo, il vantaggio è che in quel mese si pagano tutte le imposte e i tributi fissi che gravano sulle aziende, indipendentemente dalla produzione di reddito. Vi è l’anticipazione non dell’operatività dell’impresa ma unicamente della sua tassabilità. Questo è sicuramente l’obiettivo che il Governo persegue con coerenza.
L’intero provvedimento presenta problemi notevoli. Ad esempio, va citato il fatto che l’articolo 9 introduce, naturalmente per decreto-legge, modifiche a un decreto-legge di appena cinque mesi prima – il cosiddetto Bersani 1; segno, anche questo, di autodenuncia dell’inadeguatezza del sistema del decreto-legge per realizzare riforme di questa portata.
Non parliamo, poi, della farraginosità dell’intera struttura del provvedimento. Leggendolo articolo per articolo, constatavo con piacere che gli articoli 6 e 12 erano stati soppressi. Certo, sono stati soppressi per poi essere introdotti nel grande guazzabuglio dell’ultimo articolo come commi aggiuntivi.
Di fronte a ciò, è dovere del Senato – di tutto il Senato, non solo dell’Opposizione – dire “no” a questo sistema che sottrae la facoltà legislativa alle Camere e in particolare al Senato. Tutte queste norme possono essere affrontate tranquillamente con il procedimento ordinario di formazione delle leggi, in cui tutti possono offrire il proprio contributo, Maggioranza e Opposizione; altrimenti deleghiamo il potere di fare le leggi al Governo, che però lo sta usando decisamente male.