La prerogativa della difesa della dignità della donna non è solo dell’ideologia recente, ma ogni cultura decente e ogni società precedente l’ha fatta propria, pur con evidenti carenze ed eccezioni.

Signor Presidente, la questione della violenza sulle donne è molto complessa e giustamente è stata istituita una Commissione che se ne occupa. Ringrazio pertanto il Presidente e tutti i componenti della Commissione per il lavoro che hanno svolto e per le relazioni che stanno preparando e che stanno presentando all’Assemblea, che giustamente le deve esaminare. Anche se sembrerebbe quasi superfluo farlo, voglio dire che la violenza di un uomo su una donna è esecrabile, ripugnante e da rigettare sotto qualunque punto di vista e da qualunque versante culturale, sociale e storico la si guardi. La prerogativa della difesa della dignità della donna non è solo dell’ideologia recente, ma ogni cultura decente e ogni società precedente l’ha fatta propria, pur con evidenti carenze ed eccezioni.

Detto questo, vorrei parlare di un problema molto particolare, con cui sono venuto a contatto occupandomi di altro. Presiedo da cinque anni un’associazione, che si occupa dei bambini fuori famiglia, dei bambini tolti alle famiglie, dei percorsi che devono affrontare e a volte degli abusi che vengono commessi nel togliere i bambini alle famiglie. La cosa è diventata molto di attualità lo scorso anno, quando il caso che ha coinvolto una nota località in provincia di Reggio Emilia è diventato di dominio nazionale. Il fenomeno, però, non è certo limitato solo a quell’area e non è certo nato l’anno scorso, ma va avanti da anni. Ebbene cosa c’entra questo tema con la violenza sulle donne? Alcuni casi di persone che si sono rivolte o che comunque sono finite all’attenzione di questa associazione, denominata «Rete sociale», avvenivano nel modo che mi appresto ad illustrare. Spero di essere smentito, ma purtroppo da anni chiedo e mi informo su questa condizione e, ahimè, non ho trovato smentite. Per quanto ne so io, tutte o comunque la stragrande maggioranza delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza o si recano nelle “case rifugio” – o come le vogliamo chiamare, visto che hanno diverse denominazioni o “ragioni sociali” – vengono sottoposte alla valutazione da parte dei servizi sociali per accertare se siano in condizione di esercitare la responsabilità genitoriale. Detto in modo chiaro, vengono immediatamente messe sotto analisi per vedere se togliere loro i bambini, o meno. Questo accade a tutte, a quanto mi risulta.

Trovo che già questo sia un abuso e una violenza. Ma come? Stiamo parlando infatti di una donna che trova il coraggio di rivolgersi a questi centri ed è un coraggio che non vale solo per se stessa e a difesa di se stessa, ma è a difesa dei propri figli (che a volte sono vittime loro stessi, perché spesso gli uomini violenti con la loro donna lo sono anche con i bambini, e a volte no, ma sta di fatto che ovviamente ai bambini non faccia bene stare in un ambiente in cui l’uomo picchia, maltratta o esercita violenza, a volte grave, sulla sua compagna, moglie o quello che sia). Ebbene, queste donne vengono messe immediatamente sotto osservazione, per vedere se sono buone madri. C’è un provvedimento frequente che riguarda i loro figli: succede infatti che se una donna, ad esempio questa mattina o oggi pomeriggio, denuncia una violenza, le viene chiesto da quando il marito abbia cominciato ad avere atteggiamenti violenti. Quando la donna risponde che saranno, ad esempio, due o tre anni, due o tre mesi o due o tre settimane, le viene domandato come mai abbia aspettato tutto questo tempo per venire a denunciare, con i figli che sono in pericolo. Anche se magari i figli non sono mai stati toccati, si considerano comunque in pericolo e si sospetta dunque che la donna sia una cattiva madre e così dal sospetto si passa all’azione. Ci sono molti provvedimenti di tribunali, che prevedono la seguente formula, riguardante i bambini di qualunque età, ovviamente minorenni: «Venga collocato il minore in uno spazio protetto con la facoltà della madre di accudirlo». «Facoltà» vuol dire: «se vuoi e puoi» – poi discuterò anche di questo aspetto – «Cara madre puoi stare con tuo figlio; se però, per qualsiasi motivo, non puoi o non vuoi sia chiaro che il bambino resta qui e tu vai o dove ti pare o dove decidiamo noi».

Ci sono casi in cui le donne vanno con il loro figlio, ma poi vengono allontanate forzosamente da queste case, perché essendo stata loro sospesa – qualche volta anche tolta – la cosiddetta responsabilità genitoriale, non hanno più alcuna possibilità, alcun diritto di stare con il bambino: hanno una facoltà di stare con il bambino. A volte, a insindacabile – di fatto – giudizio di taluni operatori, la donna viene considerata non sufficientemente collaborativa con la casa dove si trova. Essere collaborativa vuol dire naturalmente tenere in ordine la stanza o gli spazi che condivide con il figlio o i figli; ma a volte vuol dire anche fare le pulizie nelle zone comuni e le scale, non certo perché la casa famiglia abbia bisogno di questo (perché le case famiglia non badano a spese, a volte), ma per dimostrare la sua collaboratività. Dimostrandola, risparmia anche qualche spesa alla casa famiglia. Se non dimostra sufficiente collaboratività, viene considerata non conciliante, non collaborativa, incompatibile con l’ambiente in cui si trova, e dunque viene allontanata e privata dei suoi figli. Trovo che questa sia una cosa mostruosa (Applausi), perché a una donna già vittima di violenza vengono anche tolti i bambini, non perché vi sia un incidente, ma con l’infamia: tu non sei degna di essere madre dei tuoi figli. E perché? A volte per buoni motivi – ci sono anche dei casi giustificati – ma a volte no. È chiaro che è un po’ come l’analisi sui tamponi: più ne fai e più è facile che ci siano dei casi positivi. Lo stesso accade nella valutazione della capacità genitoriale, a volte sulla base di un giudizio non sempre equilibrato, come abbiamo letto nelle cronache. Tante volte ho incontrato, parlando direttamente con le persone o con i legali che se ne occupano, anche soggetti che, privi di titoli, aiutano persone in questa situazione.

Vi è un altro effetto collaterale che si determina quando le donne devono abbandonare la casa. Purtroppo, troppo spesso – ma non dovrebbe succedere mai – la legge dice che, nel caso di violenza fra coniugi, debba essere allontanato il coniuge violento. È un’elementare norma di giustizia, ma spesso si dice: «Noi possiamo allontanare il marito o il compagno violento, però non siamo in grado di tenere le Forze dell’ordine davanti alla casa; infatti il marito o il coniuge violento potrebbe sempre tornare». Per cui è meglio allontanare il coniuge che subisce (che nella grande maggioranza dei casi è la donna). Di conseguenza, questo coniuge si trova sradicato e spesso perde il lavoro che aveva oppure, trovandosi la donna da sola, vorrebbe averlo. Non sono casi isolati, poiché anche a tale proposito ho avuto testimonianza di diversi casi in cui la donna trova sì un lavoro, ma quest’ultimo, come sappiamo, non vuol dire che lavori quando vuoi: non è il lavoro che piace come quelli raffigurati nei film, ad esempio lo scrittore che quando vuole scrive quattro versi che poi vengono venduti in milioni di copie. Il lavoro che fanno le persone normali tante volte vuol dire fare quattro, sei o otto ore lavoro. Ebbene, ci sono donne allontanate da queste case e dai loro figli perché «lei deve trovare, signora o signorina, un lavoro che si concili con il suo ruolo di madre». Ma come, noi giustamente siamo per la piena occupazione anche delle donne quando sono in casa loro e poi, quando sono sotto la tutela diretta delle strutture pubbliche, diciamo: «Tu, donna, devi trovare un lavoro da due o tre ore perché non potrai mica pensare di fare un lavoro normale come se tu fossi un uomo»?

Di queste cose bisognerebbe occuparsi, anche perché c’è un piccolo problema. Sempre sulla base di testimonianze ricevute, risulta difficilissimo capire quanto gli enti diano a questi centri che si occupano dei bambini e delle donne. Quando lo si viene a sapere, sono somme alte, assai più alte di un buon reddito. Parliamo di 100 euro al giorno, per cui madre e figlio o madre e figlia in un mese portano 6.000 euro alla struttura che li ospita. Difficilmente le spese sono superiori. Quando c’è un eccesso di compenso per un’attività c’è allora il rischio che questa attività si gonfi, travalichi e vada al di là di quello che dovrebbe fare.

Siccome c’è bisogno di tutelare le persone che si trovano in queste difficoltà, di tutelare le donne e di tutelare i loro figli, quando ce ne sono, non si può fare uso sbagliato di questi soldi, perché ciò vuol dire incentivare le cattive pratiche e magari lasciare chi davvero ha bisogno senza le risorse di cui avrebbe davvero necessità.

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