Riforma della RAI: si scrive «Via i Partiti dalla RAI» e si legge «Via gli altri Partiti»

Se c’è qualcosa da riformare nella RAI, questo è l’aspetto imprenditoriale e non l’ulteriore rafforzamento della presenza – già preponderante – del Governo

Intervento in Aula nella discussione sulla riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo

Signor Presidente,

vent’anni fa veniva lanciata da alcuni giornalisti della RAI la campagna «Abbonato alza la voce». Il timore espresso da alcuni di essi, diversi dei quali sono poi entrati in politica – direi direttamente, nel senso che si sono candidati tutti nella Sinistra – era dovuto a presunte invasioni di campo da parte del Governo che, per alcuni mesi dell’anno precedente, era stato presieduto da Silvio Berlusconi.

Qual è il punto che fu sollevato da quei giornalisti, appoggiati da noti sindacati all’interno della RAI? Il timore era che l’Esecutivo esercitasse un potere eccessivo sul servizio pubblico, minandone il pluralismo e andando verso una situazione che metteva addirittura in pericolo la democrazia. Ora, non si devono sottovalutare ragionamenti di questo tipo, perché in essi sono adombrate cose che si discutono già da molto tempo, da molto prima che esistesse la televisione.

Nientemeno che Thomas Jefferson, vissuto parecchio prima della televisione e anche della radio, diceva che, per il buon funzionamento di una democrazia, occorrevano due cose: istituzioni democratiche che funzionassero e mezzi d’informazione affidabili e plurali. Lo scriveva nel XVIII secolo, quasi duecentocinquant’anni fa, e credo che sicuramente fosse uno che di democrazia se ne intendeva.

Facendo un salto fino ad oggi, io ho vissuto diverse volte l’esperienza molto interessante di osservatore internazionale per le elezioni in alcuni Paesi. Tali missioni sono più frequenti nei Paesi di recente democrazia, ma sono state fatte anche in Paesi di democrazia assai più lunga e, almeno in teoria, solida. Dagli osservatori vengono considerate due cose. Gli osservatori a breve termine arrivano sul posto proprio per le operazioni di voto e vanno a controllare i seggi. Essi sono un po’ come gli osservatori dei Partiti nei nostri seggi elettorali: possono costatare le condizioni di voto e devono compilare dei rapporti che, poi, vengono gestiti dalle organizzazioni internazionali a ciò preposte, per conglobare i dati. Le domande riguardano ovviamente la regolarità del voto, se è garantita la sua segretezza, se c’è tensione nei seggi, se ci sono persone armate al loro interno o se viene fatta propaganda elettorale all’interno dei seggi o nelle immediate vicinanze. Questo è un aspetto molto importante perché, se il voto è effettuato in condizioni di coercizione, non si può parlare di elezioni regolari. Esistono però anche gli osservatori a lungo termine, alcuni dei quali arrivano tre mesi prima delle elezioni – sono pochi, ovviamente, perché si pone anche una questione di fondi e di personale – e altri il mese prima, per osservare l’insieme del funzionamento dei mezzi di informazione. Ciò fa, infatti, parte delle elezioni perché se, dal punto di vista tecnico, il giorno delle elezioni si può votare liberamente per il Partito di Governo o per uno di opposizione ma, nel mese o nei mesi precedenti i mezzi di informazione sono stati, a senso unico o quasi, a favore del Governo, la democrazia c’è solo dal punto formale mentre, dal punto di vista sostanziale, è tutta un’altra cosa.

Dunque, i rapporti per giudicare la regolarità delle elezioni non si limitano al fatto tecnico, ma si estendono a un’analisi sull’uso dei mezzi di informazione. Naturalmente, queste analisi – mi riferisco agli altri Paesi – vengono fatte su tutti i mezzi di informazione, di proprietà sia pubblica che privata. Sappiamo che in alcuni Paesi non esistono mezzi di informazione di proprietà pubblica, mentre in altri sono la totalità o quasi.

Ebbene, in Italia, la RAI svolge un servizio importantissimo; è stata molto a lungo monopolista e credo sia una grande cosa aver superato tale monopolio – grazie a molte piccole reti televisive private, ostacolate in mille modi da burocrazia e leggi, e anche alle televisioni di Silvio Berlusconi che, in questo modo, ha contribuito al pluralismo. Che cosa diremmo di un Paese in cui i quotidiani, i giornali o i settimanali possono essere solo di proprietà dello Stato? Eppure, dal punto di vista televisivo, questa era l’Italia fino a pochi anni fa, ovvero fino a 40 anni fa o anche meno. Ci furono poi i famosi episodi di oscuramento dei ripetitori, a proposito dei quali l’attenzione di alcune rievocazioni storiche piuttosto approssimative è rivolta al decreto che mise fino a tale oscuramento e non al fatto che dei mezzi di informazione importantissimi, che garantivano il pluralismo, erano stati chiusi per la decisione di un singolo magistrato e di una singola Procura.

Ebbene, il fatto che l’Esecutivo non debba e non possa avere un’influenza preponderante o un eccesso di potere sul servizio pubblico – figuriamoci poi su eventuali altri mezzi di informazione – è molto importante. Su questo aspetto sono facili gli slogan, come: «Basta con la lottizzazione! Nominiamo persone super partes, come i professori e i Presidenti di Corte Costituzionale». Però, grazie al Cielo, anche i professori universitari e persino i giudici costituzionali hanno le loro idee politiche; e pensare che i garanti sono saggi mentre, degli altri, c’è poco da fidarsi, riflette una mentalità poco democratica. La democrazia è proprio il confronto delle idee e vale non solo per coloro che partecipano alle competizioni elettorali – i Partiti e i candidati – ma anche per i mezzi di informazione. In caso contrario, ci si accontenta di un giornale unico, come il «Quotidiano del popolo» – in una grande Nazione esiste ancora – che va bene per tutti ma, soprattutto, per coloro che lo controllano.

Credo, dunque, che il lavoro svolto in Commissione sia molto importante, ed è normale che essa sia stata messa in condizione di poter lavorare. Ritengo estremamente grave quando ciò viene invece impedito, come più volte è accaduto in questa legislatura, presentando provvedimenti all’Assemblea su cui la Commissione non vi ha potuto lavorare. In Assemblea, poi, si può lavorare ancora di meno, perché – di solito – su di essi viene posta la fiducia.

Questo lavoro è stato importante, perché si è passati da un approccio in confronto al quale anche le caricature delle cosiddette occupazioni dei posti, denunciate dalle varie campagne quali «Abbonato alza la voce», impallidiscono, a qualcosa che, a quanto pare, è un po’ meno inaccettabile. Il tutto è stato fatto con lo slogan «Via i Partiti dalla RAI», e cioè «Via gli altri Partiti».

Sappiamo bene che questo è un vecchio trucchetto – o, piuttosto, un vecchio sotterfugio – per cui gli altri sono i Partiti, quelli brutti e cattivi, mentre invece il Partito al quale si appartiene magari si chiama movimento, o semplicemente è il proprio Partito, magari il Partito del Presidente del Consiglio. Di conseguenza, gli altri sono brutti e cattivi, mentre quello, invece, rappresenta la somma di ogni sapienza umana. Se anche fosse, sarebbe bene che questa grande sapienza non restasse concentrata in un solo soggetto politico, ma fosse affidata al pluralismo, alla concorrenza e alla competizione tra le idee che i cittadini esprimono, in modo valido dal punto di vista delle garanzie costituzionali, nelle elezioni allorquando viene formato il Parlamento – che ha un pluralismo al suo interno e vede rappresentate diverse opinioni. Di contro, il Governo, per sua natura, è una coalizione o addirittura può essere sostenuto da un solo Partito, ragion per cui non garantisce il pluralismo. Ecco il motivo molto semplice per cui meglio i Partiti che il Partito. E, naturalmente, sarebbe importante riservare un grande spazio per quelli bravi.

È stata citata prima da un collega del Movimento 5 Stelle l’abitudine secondo cui un tempo – nella cosiddetta prima Repubblica – nelle assunzioni si prendeva un democristiano, un comunista, un socialista e uno bravo. Era Sandro Curzi a dirlo, se non sbaglio, ovvero una persona chiaramente impegnata in politica in un partito di nome Comunista. Indubbiamente ci dovrebbero essere anche selezioni per merito (e solo per quello). Ma pensare che un soggetto, solo perché non è scelto attraverso i meccanismi parlamentari o para-parlamentari, sia super partes è veramente una furberia – si pensa di avere una prevalenza in quelle categorie cosiddette super partesoppure una ingenuità clamorosa. Ci devono essere contrappesi ed organi di garanzia. E organo di garanzia non può essere un amministratore delegato nominato dal Governo, come – spero di poter dire – si prevedeva nel testo originario. Ci deve essere – sì – un amministratore, ma non può essere il monopolista: non può avere completamente in mano la televisione, la radio, il servizio pubblico perché, altrimenti, il pluralismo viene meno.

I dati pubblicati dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni dicono quanto tempo di video e di parola hanno gli esponenti dei vari Partiti. Ebbene, c’è sempre un certo occhio di riguardo per il Partito Democratico: proprio nel mese di giugno appena trascorso, il Partito Democratico è stato, come tale, sopra il 40 per cento (è parecchio di più del suo peso elettorale, espresso sia nelle ultime elezioni valide – quelle per il Parlamento, dove ebbe il 24 per cento – che nelle ultime consultazioni avvenute). Ma, soprattutto, c’è lo spazio dedicato alle figure istituzionali: la persona del Presidente del Consiglio rasenta da sola addirittura il 50 per cento, cui si aggiunge il 20 per cento del Governo da lui presieduto. Seguono il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera: tutti espressione dei Partiti di Sinistra. La maggioranza ha, quindi, uno spazio estremamente importante. Questo, si badi, è quanto avviene nella situazione di oggi, quindi non c’è davvero bisogno di rafforzare il potere – magari anche solo occulto, per così dire – derivante da un certo prestigio, dal fascino che può esercitare su giornalisti anche adamantini il fatto che ci sia qualcuno che il potere lo ha e spesso lo esercita anche con pochi scrupoli. Se c’è bisogno di rafforzare qualcosa nella gestione della RAI – che è una grande azienda con più di 11.000 dipendenti, che costa agli italiani e quindi deve rendere al meglio – questo può essere fatto dal punto di vista imprenditoriale, per lanciare iniziative e per determinare dei miglioramenti nell’efficienza della produzione, ma non vi può essere l’estensione dei poteri di nomina e cioè la collocazione delle persone che hanno questa o quella simpatia politica – che poi, ovviamente, è sempre quella più vicina al Governo perché, altrimenti, non si capisce perché il Governo dovrebbe tenere così tanto ad avere un amministratore delegato.

Esprimo quindi gratitudine a coloro che hanno lavorato in Commissione, in particolare ai Colleghi della componente di Forza Italia, e spero che in Assemblea si arrivi a una definizione più accettabile, perché non sarebbe davvero accettabile che in una situazione attuale, nella quale c’è già una preponderanza (si diceva prima che il Presidente del Consiglio vantava una presenza di sei ore alla settimana nelle principali televisioni), si rafforzasse addirittura questa presenza. Direi che sarebbe un bene anche per lui perché, alla lunga, il troppo può stancare e ciascuno deve essere giudicato equanimemente – e, cioè, devono anche comparire le opinioni degli altri e non ci deve essere un eccesso di esposizione, perché altrimenti c’è il rischio che si arrivi al riflesso condizionato, che è proprio l’opposto della scelta responsabile.

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