Iraq: contro le ripetute inadempienze del regime, la Comunità internazionale deve usare la sua compattezza come un’arma pacifica di dissuasione

Intervento in Aula nella discussione sulle comunicazioni del Governo concernenti la politica estera italiana

Signor Presidente, Signor rappresentante del Governo, Colleghi senatori ancora presenti,

per capire l’attuale situazione, credo sia utile riepilogare ciò che è avvenuto tra la Comunità internazionale e l’Iraq negli ultimi dodici o tredici anni.

Infatti, la situazione che si presenta oggi non nasce da un qualche impulso improvvisamente nato dal Governo degli Stati Uniti, ma è figlia di quanto avvenne nel 1990-1991. Benché si tratti di avvenimenti molto recenti, credo sia bene ricordarli, poiché sembra che qualcuno abbia una memoria assai selettiva: ricorda soltanto certe cose e ne dimentica rapidamente altre.

Nel 1990, l’Iraq di Saddam Hussein – senza altro motivo se non quello di non pagare dei debiti, contratti per finanziare la guerra iniziata e combattuta con un milione di morti contro l’Iran – attaccò e invase lo Stato sovrano del Kuwait. La Comunità internazionale, con una grandissima coalizione di Stati, decise un’azione nei confronti di Saddam Hussein. Prima dell’azione militare vera e propria condotta dagli Stati Uniti d’America, alla quale anche l’Italia dette il suo contributo, fu fatto ogni tentativo per indurre Saddam Hussein a ritirarsi pacificamente, evitando spargimenti di sangue. Questi tentativi non andarono a buon fine – forse perché il dittatore di Baghdad sperava che fossero minacce cui non sarebbe seguita alcuna azione.

L’azione invece seguì, fu molto rapida e consentì in breve tempo di liberare il territorio del Kuwait dalle truppe che lo avevano invaso. Era già pronta l’offensiva finale terrestre, che prevedeva di continuare e di marciare verso Baghdad per rovesciare il regime di Saddam Hussein (un regime sanguinario, dittatoriale, criminale, ma su questo tornerò in seguito) ma si preferì scegliere un’altra soluzione. Vi furono delle intermediazioni, vi fu una grande mobilitazione internazionale – anche dal punto di vista diplomatico – e si scelse in alternativa a questa un’altra soluzione che, nelle intenzioni, doveva dare lo stesso risultato, cioè impedire all’Iraq di continuare a essere un pericolo per gli Stati vicini e per la sicurezza internazionale. Questo fu stabilito con la Risoluzione 687 del 1991 dell’ONU e la condizione principale era il disarmo totale dell’Iraq per quanto riguarda le armi di distruzione di massa. A questa risoluzione l’Iraq non ha dato seguito – continuando a detenere, costruire e tenere in funzione armi chimiche, biologiche e nucleari, anche nel periodo in cui gli ispettori dell’ONU erano presenti sul suo territorio.

È per questo che è entrato molto presto in vigore l’embargo, che molti dimenticano essere stato un embargo delle Nazioni Unite, deciso con una Risoluzione che è la medesima che ha consentito di chiudere le ostilità militari nel 1991. Anche su questo è bene fare qualche precisazione. C’è chi in quest’Aula, da parte dell’Opposizione, ha dato all’embargo la colpa delle centinaia di migliaia di bambini morti per la mancanza di farmaci e di alimenti. Innanzitutto, se così fosse, non sarebbe colpa degli Stati Uniti bensì delle Nazioni Unite, che hanno votato questo embargo. C’è poi un’altra considerazione da fare. Supponiamo, intanto, che siano vere le cifre fornite dal regime iracheno (che mente sistematicamente e dunque, probabilmente, mente anche su questo): si tratterebbe di un milione e mezzo di vittime. Se fossero anche poche centinaia di migliaia, sarebbe comunque una cifra spaventosa. Ebbene, va detto che l’embargo è stato in seguito attenuato dalle misure oil for food (petrolio per cibo), ma il denaro ricavato dalle esportazioni di petrolio – che hanno raggiunto lo stesso livello che avevano prima della guerra del 1991, quando in Iraq non morivano i bambini per denutrizione o per mancanza di farmaci – non ha impedito, a quanto pare, che i bambini muoiano. Ciò avviene perché il regime iracheno usa il denaro che ha per un enorme programma militare. Destina tra il 10 e il 15 per cento del prodotto interno lordo, e cioè intorno al 60-70 per cento del bilancio statale, a spese militari, utilizzando poi altre somme ingenti per costruire immense moschee ed edifici presidenziali nei quali si pretende non possano accedere gli ispettori dell’ONU.

Di fronte a questa situazione, di continuo inadempimento da parte del regime di Baghdad degli impegni presi con l’ONU, c’è stata la Risoluzione dell’anno scorso, la 1441, che chiedeva all’Iraq di dimostrare non già la detenzione di armi illecite, come pure un autorevole senatore ha detto in precedenza, ma la distruzione di quelle armi che gli stessi ispettori dell’ONU avevano accertato esistere ed essere operative ancora nel 1999; fra queste, come ha ricordato il Presidente del Consiglio al termine del suo intervento, ingenti quantità di agenti tossici e testate balistiche vietate espressamente dalla risoluzione dell’ONU del 1991. Per questo deve essere chiesto al regime iracheno di chiarire dove sono finite quelle armi di distruzione di massa di cui gli ispettori dell’ONU hanno accertato l’esistenza solo pochi anni fa. L’Iraq non lo sta facendo.

A questo punto, è chiaro che la Comunità internazionale non può rimanere inerte, non può fare la comoda scelta di non fare nulla, di nascondere la testa sotto la sabbia, ma deve essere più unita che mai per fare l’estremo tentativo di usare la sua compattezza come un’arma pacifica di dissuasione, l’unica che può scongiurare la guerra. Questa unità della coalizione internazionale è sicuramente rafforzata dalla grande opera che stanno compiendo il Governo italiano e il Presidente del Consiglio: a essa ribadiamo la nostra piena approvazione.

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