Non ritengo giusto approvare un accordo con un Paese che appoggia la dittatura birmana e il Governo sudanese in Darfur e che, a casa propria, applica la predazione degli organi – persino da persone vive

Un sistema mostruoso che assomma il peggio del comunismo con il peggio del capitalismo, cioè la totale mancanza di rispetto per gli individui, per le religioni, per le libertà, e anche uno sfruttamento “scientifico” fino alle estreme conseguenze. Se, dopo 9 anni, l’Accordo con la Cina non è stato ancora ratificato, forse c’è un motivo

Intervento in Aula nella discussione sulla ratifica dell’Accordo fra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica popolare di Cina per la cooperazione scientifica e tecnologica, con Allegato, fatto a Pechino il 9 giugno 1998

Signor Presidente,

anche in questo caso, evidentemente, abbiamo in questione la realtà cinese – una realtà estremamente importante, che ha un peso sempre maggiore a livello mondiale.

In quest’Aula, mercoledì scorso, è stata approvata la mozione del senatore Andreotti per l’istituzione di una Commissione sui diritti umani. Ho riletto quanto è stato detto in quell’occasione: curiosamente, sono stati menzionati molti Paesi e molti casi concreti di violazione dei diritti umani, ma di Cina hanno parlato solo due senatori di Alleanza Nazionale e due senatori di Forza Italia. Questo non vuol dire che gli altri intervenuti non avessero presente la situazione; gli altri senatori hanno parlato del Brasile, dei CPT in Italia, della pena di morte negli Stati Uniti e di vari casi nel resto del mondo. Hanno parlato anche di due questioni estremamente importanti: della feroce dittatura presente in Birmania e della gravissima situazione del Darfur, in Sudan.

Credo che faremmo torto a un minimo di conoscenza degli affari internazionali se non ricordassimo che la dittatura birmana è appoggiata dal Governo della Repubblica popolare cinese e che il Governo del Sudan, con la sua politica di feroce sterminio, di feroce oppressione della minoranza che si trova nel Darfur, è appoggiato dal Governo cinese dal punto di vista economico e politico. Sappiamo benissimo che il Governo cinese era in prima fila – ce l’ha detto il Ministro D’Alema qualche mese fa in quest’Aula, pur senza menzionare direttamente il Governo cinese – tra quei Paesi che hanno impedito l’approvazione di una mozione di condanna da parte dell’ONU del Governo sudanese per il suo atteggiamento nei confronti del Darfur. Per non parlare di quanto avviene nella Cina vera e propria.

Credo, pertanto, che il passaggio dall’alta discussione che si è svolta la settimana scorsa nell’approvare la Commissione sui diritti umani alle ratifiche di oggi non dovrebbe essere troppo brusco. Nella discussione odierna non dovremmo dimenticarci di quanto abbiamo detto la settimana scorsa, sia pure parlando solo in linea generale.

Questo Accordo tra l’Italia e la Repubblica popolare cinese risale al lontano 1998. Credo che non sia un caso se, dopo quasi nove anni, esso non è ancora stato ratificato. Ricordo che, nella scorsa legislatura, abbiamo smaltito tutto l’arretrato che avevamo trovato all’inizio della legislatura per quanto riguarda la ratifica di Accordi e Trattati internazionali e che abbiamo ratificato la grandissima maggioranza degli Accordi intervenuti nel corso del quinquennio. Il fatto che questo Accordo sia rimasto indietro non è, per l’appunto, casuale. Esso approdò in Aula già nella XIII legislatura, nel 1999; fu poi rimandato in Commissione perché erano state suscitate delle perplessità riguardo, in particolare, alle biotecnologie. Esponenti del Gruppo dei Verdi notarono che nell’Allegato, che tuttora siamo chiamati a ratificare, si menzionano a proposito di proprietà intellettuale «in particolare invenzioni, modelli industriali, nuove varietà vegetali», e ciò dovrebbe attirare l’attenzione. Il disegno di legge di ratifica fu rimandato in Commissione, il tempo passò e si giunse alla fine della legislatura nel 2001 senza arrivare alla ratifica, all’approvazione da parte di entrambe le Camere; anzi: neppure da parte del Senato in Aula. Nella scorsa legislatura si è fatto un passo in più, cioè l’approvazione al Senato, ma alla Camera si ritornò in Commissione quando già il provvedimento era in Aula e, dai resoconti, sembra di capire per la stessa ragione. Allora credo che dobbiamo porci veramente il problema di questo Accordo di cooperazione.

Cito anche che, tra i campi di collaborazione menzionati all’articolo 2 dell’accordo, vi è un punto importante (anche se per la verità sono tutti importanti), cioè: «Sanità, biomedicina e biotecnologie». Ora, accanto all’atrocità delle 10.000 esecuzioni annuali (forse più o forse qualcosa di meno: penso che neppure le autorità cinesi lo sappiano con certezza), esiste un fenomeno ancora più inquietante, se possibile, che è quello dell’espianto di organi dai condannati a morte – sicuramente dopo l’esecuzione, ma non è escluso, da coloro che si occupano dei diritti umani, che a volte avvengano addirittura prima della morte. Abbiamo la testimonianza di un medico cinese che ovviamente non vuole essere nominato, dell’aprile del 2006, il quale dice: «Una volta che il tribunale dà il suo consenso, i medici possono andare sul campo dove vengono svolte le esecuzioni, aspettano in un furgone sterile e raccolgono l’organo immediatamente dopo l’esecuzione. Tali esperienze causano un forte shock morale e mentale a molti chirurghi, perché i prigionieri di solito non muoiono immediatamente dopo essere stati colpiti. Ma i chirurghi devono agire rapidamente perché gli organi abbiano i dovuti requisiti di freschezza» (usa proprio la parola «freshness»). In qualche modo «i medici sono parte dell’esecuzione», perché è chiaro che, una volta prelevati gli organi vitali, il condannato, benché non colpito a morte dallo sparo che viene usato per giustiziarlo, evidentemente non può più vivere. Dice ancora: «Questo è troppo per molti giovani medici da accettare però, se vuoi fare i trapianti, devi affrontare la realtà».

Questo racconta un medico cinese. Allora mi pare che queste non siano cose da poco e io credo che dovremmo davvero pensarci bene prima di andare avanti su questo Accordo. È vero che l’Accordo è stato firmato ormai molti anni fa e che nessuno ha pensato di sconfessarlo, e io credo che bene fece il Governo del tempo a firmarlo, ma devo dire che, dal 1998, ci si poteva aspettare qualche miglioramento. Mi pare che i miglioramenti, come ho detto parlando della ratifica precedente, avvengano dal punto di vista formale, cioè vengano presentati alcuni miglioramenti ma, di fatto, si vada avanti verso una maggiore efficienza di questo sistema mostruoso che assomma il peggio del comunismo con il peggio del capitalismo, cioè la totale mancanza di rispetto per gli individui, per le comunità e per le etnie locali, per le religioni, per la libertà di opinione, e anche uno sfruttamento scientifico, totale fino alle estreme conseguenze – come quella di predare gli organi ai condannati a morte in punto di morte.

A fronte di tutto ciò, vengono presentati dei provvedimenti che sembrano venire un poco incontro agli appelli a favore dei diritti umani che vengono talora presentati, ritengo con scarsa convinzione e anche con scarsa fiducia (questo credo sia pienamente giustificato). Per esempio, per quanto riguarda la predazione degli organi, è stata approvata una legge che stabilisce che ci voglia il consenso del cosiddetto donatore; questo, però, implica che il donatore sia vivo; quando il donatore è morto, evidentemente, il suo consenso non può più essere espresso e neppure negato. In questo caso, non una legge, ma una norma di rango inferiore stabilisce che sia la famiglia a poter disporre dell’eventuale autorizzazione all’espianto degli organi. Credo, però, che il complesso della situazione politica e sociale, nella pratica, impedisca alle famiglie di esprimere un reale e sereno consenso, perché vi saranno sicuramente delle pressioni. Sappiamo bene che gli organi possono essere venduti a notevoli cifre; tuttavia, anche se non si parla di soldi, qualora un potente personaggio avesse bisogno di un rene, ci si potrebbe tranquillamente dimenticare di chiedere alla famiglia del condannato l’autorizzazione all’espianto. C’è, però, un punto fondamentale, rappresentato dal fatto che, generalmente, le famiglie apprendono dell’esecuzione una volta che questa è stata effettuata, quando arriva a casa il conto, secondo un’antica tradizione, relativo al costo della pallottola utilizzata per eliminare quella persona.

Vale la pena di ricordare (dovremmo farlo tutti) che, in Cina, la pena di morte può essere applicata non soltanto per crimini violenti, ma anche per una serie di comportamenti in cui le fattispecie di reato sono estremamente vaghe. In sostanza, la pena di morte può essere applicata in qualunque caso il giudice lo ritenga opportuno: può essere applicata per corruzione, per traffico di droga, per determinati tipi di furto e di rapina, naturalmente per omicidio e così via; soprattutto, essa viene applicata con grande rapidità, senza garanzie processuali e, ancora oggi, senza possibilità di presentare appello a un tribunale diverso da quello che ha pronunciato la sentenza di morte.

Allora, di fronte a una situazione di questo genere, francamente non mi sento – parlo a titolo personale – di esprimere un voto favorevole sul provvedimento in esame. Tra l’altro, esso ha un costo, seppure limitato, pari a circa 400.000 euro all’anno per tre anni. Non ritengo giusto, quindi, approvare un investimento per questo tipo di collaborazione scientifica e tecnologica con un Paese che applica sistematicamente una certa logica. Infatti, non si tratta di aspetti marginali di questa società. Ricordo anche lo sfruttamento sistematico del lavoro dei reclusi nei campi di concentramento, che in Cina si chiamano laogai ma che si potrebbero tradurre in tedesco come lager: non vi sarebbe nulla da cambiare se non probabilmente i numeri; infatti, considerate le dimensioni del Paese, che ci sono state ricordate anche dal senatore Andreotti, nella scia delle classiche dichiarazioni di esponenti del Governo cinese le realtà sono molto più importanti dal punto di vista numerico.

Ricordo che, quando stava concludendosi la missione del Presidente del Consiglio Prodi in Cina, ho presentato un’interrogazione per chiedere, nel concreto, se il Governo, negli accordi che – come ci veniva riferito – avrebbe cercato di stabilire con la realtà produttiva, politica e sociale cinese (alla fine interamente controllata dal Partito comunista cinese), avesse ottenuto qualche risultato concreto. In realtà, abbiamo chiesto poco e ci si accontenterebbe di qualcosa di simbolico. È stato fatto un appello, che io ho anche firmato, a favore dell’avvocato Gao Zhisheng, un attivista dei diritti umani che è stato imprigionato e che era ancora in prigione proprio quando il presidente Prodi, con la foltissima delegazione che lo accompagnava, si trovava in Cina. Nello stile di Amnesty International, prima sarebbe bene che tutti i prigionieri politici fossero liberati. Noi non chiediamo la liberazione, ma non risulta neanche che ciò sia stato chiesto (credo che, se fosse stato fatto, ci sarebbe stato riferito).

C’è dunque una certa timidezza di fronte a questo Paese che, grazie allo sfruttamento intensivo e sistematico del lavoro (che peraltro non finirà presto), approfittando del grandissimo numero di cinesi ancora completamente tagliati fuori da qualsiasi tipo di benessere, sta accumulando un’enorme potenza finanziaria oltre che economica e produttiva, che non esita a usare in tutti i Paesi, in particolare in Africa, o anche per influenzare l’informazione e la politica occidentale.

Allora credo che, di fronte a questa realtà, non possiamo far finta di niente. Ascolterò le repliche ma, francamente, non mi sento in coscienza di dire “sì” a questo provvedimento. La fiducia data al Governo cinese nel 1998 e – torno a ripetere – nel 2001, quando sono state assegnate le Olimpiadi a Pechino, mi sembra che sia stata incamerata dando in cambio pressoché nulla: dei provvedimenti che di fatto non vengono applicati e che, in gran parte, addirittura non sono stati neppure approvati.

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