Per ogni Italiano, il Senato costa 61 centesimi al mese e ogni Senatore costa 3 centesimi al mese

Con i 182 miliardi nel corso di 10 anni, necessari per adempiere agli obblighi assunti dall’UE rispetto al Trattato di Kyoto, si farebbe funzionare il Senato per 340 anni e si pagherebbero le indennità ai senatori per 9.000 anni

Intervento in Aula nella discussione sul Rendiconto delle entrate e delle spese del Senato per l’anno finanziario 2008 e il Progetto di bilancio interno del Senato per l’anno finanziario 2009

Signor Presidente,

credo sia un’abitudine ormai molto vecchia – risalente sicuramente a un periodo precedente al momento in cui ho avuto l’onore di entrare a far parte del Parlamento io, come del resto la maggior parte dei miei colleghi – svolgere interventi contro i cosiddetti privilegi dei parlamentari, per la riduzione di ogni qualsivoglia beneficio (erogazione, pagamento e rimborso) rivolto ad essi o a coloro che li aiutano a svolgere il loro compito. Nessuno può sapere se questi interventi sono fatti sapendo che tanto, poi, la maggior parte degli altri colleghi respingerà queste proposte, oppure se sono fatti con sincerità: davvero questo non lo possiamo sapere. Possiamo sapere, però, che ciascuno di noi è libero di restituire quello che vuole della propria indennità o emolumenti (o comunque vengano chiamati): e non mi risulta che ci sia un grande affollamento presso l’apposito ufficio (che tra l’altro non c’è, ma si può effettuare un bonifico a un determinato numero di conto corrente presso la filiale della BNL operante qui in Senato).

Comunque, quando parliamo delle spese del Senato (bilancio interno e compensi dei senatori) credo che innanzitutto dovremmo sapere di cosa parliamo.

Il bilancio parla di 532.158.987 euro: si tratta di un po’ meno dello 0,07 per cento, cioè un millequattrocentosettantunesimo della spesa pubblica. Si tratta di soldi del Contribuente, che – anche fossero mille volte di meno – dobbiamo spendere nel modo più oculato e attento possibile. Dobbiamo farlo con questi 532 milioni e credo che dovremmo farlo con qualunque somma che come Parlamento e come Senato ci troviamo ad amministrare quando parliamo del bilancio e delle spese dello Stato. Oggi, però, parliamo di questa frazione: si tratta appunto di 532 milioni – più o meno 74 centesimi al mese per ogni Italiano. Sarebbe questo, dunque, il risparmio che si realizzerebbe nell’ipotesi che, di fatto, sta dietro a molte proposte che non dico certo vengano da quest’Aula, ma che si ventilano su giornali o altri organi di informazione. Allora, sarebbe questo il risparmio (in caso di soppressione del Senato)? 74 centesimi per ogni Italiano? No, perché la pensione ai dipendenti dovremmo comunque pagarla: e si tratta di 82,5 milioni di euro all’anno.

Quanto alle altre spese per il personale, che ammontano a 165 milioni, sarebbe davvero curioso troncarle da un giorno all’altro in un Paese che non ha mai licenziato un dipendente per il solo fatto che non ce n’è più necessità: si tratterebbe piuttosto di affidarli a una chissà quale altra Pubblica Amministrazione, ma la professionalità dei dipendenti del Senato è in gran parte altissima e, peraltro, difficilmente impiegabile in altri campi – per cui si tratterebbe di un processo lungo, che richiederebbe parecchi anni.

Di quei 165 milioni, almeno 40 si può calcolare che siano una partita di giro – se non per il Senato, per lo Stato in generale – perché ritornano in termini di imposte sul reddito, per cui non sarebbero un risparmio, dal momento che in realtà sono una finta spesa.

Quanto ai 48,8 milioni indicati nel bilancio per l’indennità parlamentare, ben 29 tornano al Senato in termini di contributi vari per il vitalizio o l’assistenza o allo Stato come imposte. Allo stesso modo, dei 78 milioni che vanno ai vitalizi per gli ex senatori che ne hanno i requisiti (perché non tutti ce li hanno), circa 20 tornano alla Pubblica Amministrazione.

Ecco perché l’eventuale soppressione istantanea del Senato non farebbe risparmiare 532 milioni ma solo 171, e altri 165 nel momento in cui si fossero proficuamente collocati altrove i 1.029 dipendenti (tanti risultano sul sito Internet, anche se nel frattempo credo ci sia stato qualche pensionamento e il numero si sia ridotto). Ciò avverrebbe nel caso in cui si privasse di tutto il loro sostentamento anche gli ex senatori e le loro vedove o vedovi che, all’età che verosimilmente hanno, difficilmente troverebbero un lavoro.

In altri termini, già oggi, l’intera struttura del Senato non costa 532 milioni ma non più di 440, dei quali una parte non irrilevante torna subito allo Stato in termini di IVA che il Senato paga su acquisti e forniture. Abbiamo, pertanto, un totale di 61 centesimi al mese per ogni Italiano.

Di questi 440 milioni, ben 61 milioni riguardano i senatori in carica. Si tratta di meno del 13,8 per cento nel bilancio delle spese del Senato e sono un insieme di spese e di erogazioni che vengono segnalati in una voce in una tabella riassuntiva a pagina 5, come emolumenti dei senatori che sono “la retribuzione di una prestazione lavorativa”. I rimborsi spese non sono delle retribuzioni; pertanto, la parola “emolumenti” comprende impropriamente in questo bilancio cose che emolumenti non sono: si tratta sicuramente di un costo sostenuto dal Senato, ma non sono emolumenti perché comprendono, infatti, le spese di viaggio che generalmente vengono corrisposte alle compagnie aree o alle ferrovie che non passano neppure nei conti correnti dei senatori.

Queste spese comprendono anche le spese di telefonia e informatica, la diaria per il soggiorno a Roma (qualunque lavoratore dipendente si vede rimborsare le spese sostenute per raggiungere e soggiornare in una sede lontana da casa) e il necessario per soggiornare e pagarsi i pasti presso il Senato – o altrove, quando il ristorante del Senato è chiuso- per circa 20 giorni. Chi soggiorna a Roma meno di 20 giorni al mese, indubbiamente può realizzare una qualche forma di risparmio da questo; ed è anche per questo, credo, che tutti noi corrispondiamo denaro – alcuni 1.000 euro al mese, altri di più – al Partito di appartenenza che ci chiede di contribuire al suo funzionamento.

Questi 61 milioni comprendono anche il contributo di supporto, una somma che non è esclusivamente destinata al compenso dei collaboratori ma deve servire per tutte le altre spese inerenti la funzione del parlamentare, com’è indicato specificamente nel bilancio. Tra questi, per esempio, certamente ci sono gli oneri per i collaboratori e il consulente del lavoro, che deve dirci quando pagare e quando assolvere ai vari adempimenti che derivano da un contratto di dipendenza o meno, le spese per gli uffici stabili o sul territorio oppure l’affitto di sale per incontri pubblici, spese di rappresentanza varia e per le migliaia di chilometri che percorriamo sul territorio. Non si tratta di lusso, ma di spese che uno evidentemente non affronterebbe se non fosse parlamentare e facesse un’altra attività.

Questa somma viene generalmente definita “contributo portaborse”. È interessante notare come in un Paese che definisce, per esempio, operatore scolastico colui che fa le pulizie in una scuola – cito questa nobile mansione, che ho l’orgoglio di avere praticato, solo a titolo di esempio; per cui, sia chiaro che ogni lavoro è pienamente rispettabile – si chiamino “portaborse” delle persone laureate, qualificate, che svolgono spesso relazioni e ricerche importanti, aiutano alla stesura delle leggi e degli emendamenti, trattano con alte cariche dello Stato, spesso senza orario e senza alcuna stabilità lavorativa perché sono legati alla nostra eventuale rielezione. Queste stesse persone vengono additate al pubblico ludibrio e di loro si pensa che, una volta raggiunta questa posizione, vivano in una condizione di benessere economico e di certezza. Sappiamo però che la certezza non c’è.

Facciamo un piccolo ragionamento. Supponiamo di usare tutta la somma destinata a supportare nell’insieme l’attività parlamentare per pagare una sola persona. Ebbene, senza contare che poi dovremo pagare il consulente del lavoro che ci dirà come e quando svolgere i vari adempimenti, avremo una somma tre volte e mezzo inferiore, cioè una somma pari alla media del costo per ogni dipendente del Senato divisa per 3,5. Evidentemente, non è una grande somma; a ciò bisogna aggiungere che sono sostenute anche altre spese e che la maggior parte di noi ha più di un collaboratore (ad esempio, uno a Roma e uno sul proprio territorio). Pertanto – ahimè – niente ricchezza facile, neanche per i cosiddetti “portaborse”.

A questo punto, resta l’unico vero emolumento, che è l’indennità parlamentare. Secondo il sito Internet del Senato, questa ammonterebbe a circa 5.000 euro a testa netti al mese. Faccio rilevare, in base a un dato scoperto anche in questo caso documentandomi per questa giornata, che questo calcolo non tiene conto delle addizionali IRPEF regionali e comunali che, a seconda delle Regioni e dei Comuni, si aggirano dai 200 ai 500 e, per i meno fortunati, fino ai 600 euro al mese. Quindi, questo comporta già una notevole differenza.

Grazie agli uffici, che mi hanno fornito alcuni dati relativi agli scorsi 20 anni, ho fatto un piccolo calcolo. Oggi l’indennità parlamentare deve tener conto di alcuni altri oneri che sono di fatto obbligatori e, comunque, garantiti a tutti. Io ho sentito oggi un collega definire “privilegio” la reversibilità del vitalizio. Possiamo definirlo un privilegio in generale e io penso che in molti Paesi in via di sviluppo questo privilegio non esista, ma in Italia – grazie al Cielo – mi risulta che non ci sia un lavoratore che non abbia la reversibilità per la propria potenziale vedova o il proprio potenziale vedovo. Di conseguenza, mi pare abbastanza normale che questo privilegio ci sia. Chi paga anche questi vari oneri, oggi ha un’indennità netta di circa 4.400 euro al mese. Nel gennaio 1990, chi fosse stato nella stessa situazione e con gli stessi oneri di oggi, avrebbe preso una somma in lire equivalente a 6.533 euro di oggi. Quindi, si è passati dai 6.533 euro del gennaio 1990 ai 4.349 euro del gennaio 2010, che è l’anno di cui ci occuperemo ben presto. Se poi ci si trova nella situazione di esercitare anche un altro privilegio (che è stato abolito e che viene per l’ultima volta esercitato in questa legislatura solo da alcuni), cioè quello di pagare il riscatto per la legislatura non completata (cosa che molti di noi faranno per i primi tre anni della legislatura), allora il netto scende a poco più di 3.000 euro al mese (3.095 euro per la precisione). Tale cifra va sempre contrapposta ai 6.533 euro del 1990, epoca nella quale, con vari meccanismi che sarebbe lungo spiegare, in pratica il riscatto lo si pagava sì, ma talmente più in là nel tempo che gli oneri sicuramente non ricadevano subito.

Giova ricordare che noi parliamo sempre di 12 mensilità. I parlamentari, contrariamente a quanto probabilmente molti credono (cioè che essi ricevano 17, 24 o addirittura 35 mensilità), ne hanno 12, esattamente come i mesi dell’anno. È una cosa normalissima, ma tutti i lavoratori dipendenti ricevono 13 o 14 mensilità. Quindi, quando parliamo di 4.300 euro, in realtà parliamo di 3.950 euro se rapportiamo tale somma alle 13 mensilità che hanno tutti i lavoratori dipendenti.

Detto questo, si tratta di stabilire se queste somme siano adeguate, troppe o troppo poche: di sicuro, rispetto al passato, sono inferiori. Il giudizio, poi, va stabilito su una valutazione precisa perché, alla fine, abbiamo un costo – quello riferito alle indennità – pari a circa tre centesimi al mese per ogni Contribuente. Allora, vale la pena di spendere questi tre centesimi al mese per Contribuente (riferiti non a ogni senatore ma a tutti), pari a 20 milioni di euro all’anno (ricordo che stiamo parlando strettamente della voce relativa agli emolumenti dei senatori)? Io credo di sì e, al riguardo, faccio un solo esempio.

Una delle cento questioni che ci troviamo a trattare è la politica dell’Unione Europea per l’adempimento degli obblighi che l’Unione europea ha scelto di assumersi rispetto al Trattato di Kyoto sulla politica ambientale e delle emissioni. Su questo si è già molto dibattuto in quest’Aula e spero che se ne parlerà ancora. Parliamo di 181 o 182 miliardi nel corso di 10 anni. Con questi si fa funzionare il Senato per 340 anni nel suo insieme e si pagano le indennità ai senatori per 9.000 anni. Certamente, credo che una decisione oculata al riguardo valga la somma che si spende per il funzionamento di questa struttura.

C’è chi – o per scarsa conoscenza dei numeri, o per altri motivi, o perché pensa davvero di non valere questa somma, oppure per altri motivi che ho citato prima – continua a dire che bisogna ridurre, tagliare e così via. Ricordo che abbiamo l’impegno di non aumentare in termini nominali, dunque ridurre in termini reali alcuno emolumento o retribuzione o competenza ai senatori fino alla fine della legislatura, per cui anche di questo credo che andrebbe tenuto conto. Alcuni dei colleghi dell’Italia dei Valori hanno attaccato pesantemente il bilancio del Senato, parlando addirittura di poca trasparenza. Si può dire tutto perché i numeri sono opinabili e qualunque spesa può essere considerata troppa o troppo poca, ma mi sembra proprio fuori luogo accusare di poca trasparenza un bilancio che viene discusso un giorno intero, disponibile per tutto l’anno, o le retribuzioni dei senatori messe su Internet – con evidenza maggiore rispetto alle loro proposte di legge, che forse sono ancora più importanti.

Vorrei consigliare – perché non so se lo sanno – ai Colleghi dell’Italia dei Valori, che ho trovato un articolo, ma non certamente l’unico, che parla di poca trasparenza nel bilancio del loro Partito. Si parla di 40 milioni l’anno. Vi leggo solo l’occhiello dell’articolo trovato su Internet: «I rimborsi elettorali non finiscono all’Italia dei Valori ma ad un ente controllato dall’ex ministro e dalla consorte. Il terzo socio è una deputata. Per statuto è lei che “introita e rendiconta” il finanziamento del partito». Seguono altri dettagli su cui non voglio insistere. Credo che, se si chiede trasparenza, bisognerebbe fare altrettanto anche in casa propria. La chiediamo qui al Senato, che è un po’ la nostra casa e abbiamo l’onore di considerarla tale, ma la vorremmo dappertutto.

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