A quasi 70 anni da quando le donne in Italia votano, si sente il bisogno di introdurre delle quote privilegiate. Domani serviranno delle quote per i figli non raccomandati, i disabili, i poveri, gli immigrati e gli altri sei sessi LGBTIQ
Intervento in Aula nella discussione sull’equilibrio di genere nella rappresentanza politica alle elezioni europee
Si sta avvicinando il settantesimo anno da quando le donne votano nel nostro Paese. Per la verità, già negli anni Venti formalmente era stato dato il diritto di voto alle donne nelle sole elezioni amministrative. Pochi mesi dopo, il regime di Mussolini abolì il voto per le elezioni amministrative ma, se si fossero tenute, le donne avrebbero potuto parteciparvi. Così si dovette attendere il 2 giugno 1946, ossia il referendum per la scelta tra Repubblica e monarchia e l’elezione dell’Assemblea Costituente, quando finalmente, come era giusto, le donne votarono per la prima volta nel nostro Paese.
Molti altri Paesi arrivarono prima, qualcuno più tardi, ma è curioso che, dopo quasi settant’anni, si senta il bisogno di introdurre delle quote privilegiate. Non c’erano quote privilegiate nel 1946, e credo che all’epoca davvero un gran numero di donne si trovasse in una situazione di svantaggio rispetto agli uomini. Se in una famiglia solo uno dei figli poteva studiare, nella quasi totalità dei casi – se c’era – era il maschio a farlo. Le donne erano oberate quasi totalmente dai cosiddetti lavori di casa, oltre che dalla cura della famiglia, dei figli e delle persone anziane: carichi che all’epoca erano molto più onerosi di oggi, poiché gli strumenti, i mezzi e le comodità erano inferiori. Eppure all’epoca non ci furono quote privilegiate e furono parecchie le donne fin dalle prime elezioni dell’Assemblea Costituente (una delle ultime appartenenti a tale Assemblea, scomparsa qualche mese fa, era proprio una donna).
Oggi, al contrario, quando le donne rivestono moltissimi ruoli – anche di vertice, in qualunque campo – si è scoperta la necessità di prevedere meccanismi per facilitare il loro accesso alle cariche elettive. Nelle decisioni, in particolare in quelle politiche, occorrerebbe una logica. Dove sta la logica? Qual’è il perché? Il perché potrebbe essere che le donne sono svantaggiate – in base a quanto, in parte, ho sentito affermare nei vari interventi – nel rivestire ruoli elettivi nella politica proprio dal fatto di essere donne. Si potrebbe obiettare che, in alcuni casi, il fatto di essere tali abbia facilitato alcune – proprio per l’aria di novità che si respira nel vedere una donna in nuovi ruoli mai ricoperti prima. Di certo, questa novità non c’è se in certi ruoli arriva un uomo mentre, se si tratta di una donna, si ha questo elemento in più. Ma, se la difficoltà c’è, se davvero per le donne è più difficile rispetto agli uomini raggiungere determinate cariche, mi chiedo se sono solo le donne ad avere questa difficoltà. Chi non è figlio di persone che hanno ricoperto ruoli di un certo rilievo nella società è mediamente assai meno favorito nella ricerca di un ruolo che, fino a qualche anno fa, era di grande prestigio, e oggi è il bersaglio preferito della Stampa, delle chiacchiere da bar e – ahimè – anche di molti discorsi politici. Il bersaglio preferito è il parlamentare e, nonostante questo, sono ancora molti coloro che sono disposti a farlo.
Se il punto è che le donne hanno più difficoltà degli uomini a raggiungere posizioni politiche – ad esempio nel Parlamento nazionale o, come stiamo ora discutendo nello specifico, nel Parlamento europeo – allora cosa diciamo di un immigrato, di un figlio di immigrati, di una persona che proviene da una famiglia a basso reddito o con un basso grado di istruzione, di un disabile? Pensiamo sia più difficile diventare senatore o deputato per una donna, magari sorella o figlia di un parlamentare, piuttosto che per un uomo immigrato, un uomo disabile, per un uomo che viene da una famiglia con bassissime possibilità economiche o con un basso livello di istruzione? Francamente non credo. Quando, allora, si dice che dovremo prevedere le quote per tante altre situazioni, se stabiliamo che solo i simili possono rappresentare i simili e solo le donne possono rappresentare le donne, neghiamo il valore della democrazia in generale. Non servono quindi le elezioni, ma si compila una bella statistica e si stabilisce quanti sono quelli che hanno fra i trenta e i quarant’anni, quanti fra i quaranta e i cinquant’anni e così via. Si tratta dello stesso modo con cui si fanno i campioni per i sondaggi politici: si cerca di avere una distribuzione geografica per fasce di età e di reddito che più o meno rispecchi la popolazione italiana. Si realizza una bella statistica e si arriva al Parlamento perfetto, che lo è tranne per un aspetto: non rispecchia le scelte dei cittadini e, dunque, non è democratico.
Sono del parere che dovremmo sperare che gli elettori esercitassero sempre più il loro buonsenso, la loro valutazione e il loro spirito critico nell’esprimere il proprio voto nei vari modi in cui è possibile farlo (perché, così come sono vari nel nostro Paese, lo sono anche nel resto dell’Europa). Invece no: non ci fidiamo dell’elettore, che deve essere guidato perché non capisce. L’elettore, in particolare alle elezioni europee, ha da sempre avuto la possibilità di esprimere le preferenze e di votare per le donne; credo infatti non vi sia mai stata una lista di soli uomini e, se vi è stata, penso sia stata relegata – anche per questo – nelle parti più basse della classifica elettorale. Se dunque, in questo campo, i risultati sono stati di un certo tipo, è dipeso da una libera scelta dei cittadini – uomini o donne che fossero. Qualcuno invece pensa di saperne più dei cittadini, che dunque vanno guidati e aiutati: «Devi votare, ma come dico io; e magari, se voti qualcuno che non ti piace, lo butto fuori dal Parlamento» – com’è successo recentemente (anche lì, infatti, non si può dar troppa libertà al popolo, perché non bisogna fidarsi troppo). Penso invece che dobbiamo fidarci e che facciamo bene a farlo, perché assai spesso il popolo ha molto più buonsenso di coloro che, per correre dietro alle sue presunte aspirazioni, propongono stupidaggini, dimostrando così scarsa stima proprio per quei cittadini che magari poi si pregiano di rappresentare (e si piccano di farlo meglio degli altri).
L’altra ipotesi, che non posso neppure prendere in considerazione, è che le donne in generale siano meno brave degli uomini. A questo punto, sarebbe intanto una menzogna e poi anche un pregiudizio gravissimo: se si stabilisce, per esempio, di formare un Governo per metà di uomini e per metà di donne – come ha deciso l’ultima compagine governativa – prima di sapere chi ci sia, vorrebbe dire allora che probabilmente qualcuna delle donne è meno brava e che, nonostante vi siano uomini più meritevoli, con più esperienza e conoscenze, sono state prese loro perché donne. Credo che questo sia esattamente l’opposto di quella che dovrebbe essere l’aspirazione normale, ma che francamente non ritengo prioritaria, della cosiddetta parità di genere – e su tale parola tornerò – nella rappresentanza parlamentare.
Quando analogo discorso si è fatto, e non casualmente, sulla legge elettorale per le elezioni politiche nazionali, ho sentito dichiarazioni di tale tenore: «È inammissibile che vi sia una legge elettorale che potrebbe consentire che gli eletti siano tutti uomini». In realtà, la legge elettorale, così com’è stata votata alla Camera, potrebbe anche consentire che fossero tutte donne, o tutti di una stessa Regione, o di una stessa città, o di una certa professione piuttosto che di un’altra o di una certa età (ad esempio, tutti sopra gli ottant’anni): potrebbe benissimo succedere, però si dimentica che il fondamento della democrazia è la volontà del popolo. Se si vuole allora aspirare ad incontrare le sensibilità dei cittadini, coloro che hanno la responsabilità di formare le liste saranno sicuramente spinti a dare una rappresentanza equilibrata in termini di fasce d’età, di sesso, di provenienza professionale e così via; se non lo fanno, ne pagheranno il fio, se questo è ritenuto giusto dai cittadini.
Qui ci troviamo pertanto in questa situazione paradossale, tale per cui, in un’epoca in cui le donne hanno un grandissimo spazio – com’è più che giusto che accada in ogni campo della società – bisogna fare una corsia preferenziale per loro. Perché? Un altro motivo è che oggettivamente sono poche: per la verità sono aumentate moltissimo negli ultimi anni, ma indubbiamente sono ancora meno degli uomini. Ci vorrebbero allora interventi di questo genere? Mi sembra un approccio di Palazzo. L’unico problema è, allora, che vi sono meno senatrici che senatori e meno deputate che deputati; se è per quello, però, vi sono anche molte meno idrauliche che idraulici, molte meno fabbre che fabbri, molte meno programmatrici di computer che programmatori. Vi sono anche molte meno morti per incidenti sul lavoro tra le donne che tra gli uomini. Vogliamo riequilibrare questo? Vogliamo avere un equilibrio artificiale, perché ce ne sono pochi? Non potremmo lasciare un po’ di spazio alle libere scelte dei cittadini, sia in termini di scelta di quale attività svolgere e in quale chiave proporsi, sia quando si tratta di votare?
Ho letto (non ho un dato certificato, ma l’ho sentito dire tante volte anche da persone che sono esperte del settore) che nei concorsi per l’accesso alla Magistratura da parecchi anni le donne si attestano al 60 per cento dei vincitori. Se qualcuno pensa che il ruolo di magistrato, di giudice o di procuratore sia meno importante o prestigioso di quello parlamentare, direi che è stato un po’ assente negli ultimi decenni – e forse anche molto di più – dalla nostra Storia. Perché allora non dovremmo fare le quote lì? La questione, in quel caso, non è equiparabile al fatto che vi sono più idraulici maschi che femmine, perché ciò (con tutto che anche lì si potrebbe ragionare dell’esigenza di un maggior equilibrio) potrebbe non essere un problema per la società, mentre – si dice – in Parlamento è fondamentale che ci sia questo fantomatico equilibrio. E quando si tratta di andare a processo, allora? Se fosse vero quello che c’è alla base di questo ragionamento, cioè che gli uomini possano essere rappresentati solo dagli uomini e le donne solo dalle donne, allora cosa diciamo del povero imputato o parte in causa, uomo, che si trovi davanti un tribunale a maggioranza di donne o viceversa? Lì va un po’ peggio: in quel caso la questione non è essere o no eletto; lì sei condannato, magari all’ergastolo, o non sei condannato. Non ci vorrebbe l’equilibrio anche lì?
Io ritengo di no. Ritengo che bisognerebbe lasciare alla libera determinazione dei cittadini, sia nell’elettorato passivo che nell’elettorato attivo, come formare le liste e come formare il Parlamento attraverso il proprio voto. L’argomento non ha nulla a che fare con le liste bloccate o le preferenze: qui stiamo formalmente discutendo delle elezioni europee, ma è chiaro che molti pensano che questo abbia poi dei riflessi sulle elezioni politiche nazionali, e non si vede perché ci debba essere questo irrigidimento, questa conculcazione della libertà di determinare le scelte.
Infatti, può accadere che una lista non piaccia o perché ci sono troppi uomini o perché questi uomini sono troppi addensati nella parte alta della lista: si può decidere di non votarla, perché siamo in democrazia, per ora, almeno fino a quando si potrà votare. Per ora infatti si parla, nel progresso di democrazia, di abolire le elezioni provinciali e di abolire le elezioni per il Senato – cosa che non vuol dire abolire le Province e abolire il Senato; speriamo che non si aboliscano anche le altre elezioni, e comunque, in attesa che siano abolite anche le altre, se c’è una lista che non piace perché ci sono troppi uomini, si può sempre decidere di non votarla. Ce ne saranno tante altre, si spera, perché la lista unica sarebbe un risparmio (e qualcuno ci sta pensando), ma non credo che si verificherà alle elezioni europee, dove semmai avremo una scheda molto ampia.
Infine, il testo parla giustamente (ed è il testo che fa la norma) di «sesso», mentre la rubrica dell’articolo parla di «genere». Su questo c’è un pericoloso equivoco: molti pensano che la parola «genere» sia un eufemismo per indicare «sesso», perché parlare di sesso è un po’ pruriginoso mentre parlare di genere è più elegante e si può anche dire prendendo il tè in un bel salottino. È un’altra cosa: definire uomini e donne «genere» implica l’adesione all’ideologia che, di fatto, nega la differenza di genere.
Vedo una collega del PD che mi fa dei gesti sconsolati; non so se abbia studiato questa dottrina, ma è molto precisa ed è molto chiara: definire uomini e donne due generi, se non si parla di grammatica (accezione nella quale il tavolo è maschile e la sedia è femminile: ma non credo che si parli di genere grammaticale), quindi, se si parla di genere riferito alla specie umana vuol dire aderire ad una determinata ideologia. Infatti, mentre il sesso non è un’opinione ma un fatto di natura, il genere è una questione di opinione. Un individuo può essere fisicamente ed esteriormente maschio, ma può sentirsi femmina (o viceversa), o sentirsi così così. Basta vedere tutte le norme che piacciono molto, di solito, agli stessi a cui piace la questione delle quote.
Ormai c’è un acronimo interminabile: LGBTIQ. Voi che siete arretrati siete fermi a LGBT, ma chi si aggiorna sa che c’è anche IQ: lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intergender e queer, e naturalmente si può andare avanti con un lungo elenco. Ma, allora, che senso ha fare un equilibrio fra due generi? Bisognerebbe fare un riequilibrio fra tre, quattro, cinque, sei o sette. La realtà è poi che l’appartenenza a questo o quel sesso, se si accetta l’ideologia del genere, è una questione del tutto ininfluente, per cui non si capisce per quale motivo dovrebbe importare qualcosa, proprio alla luce di questa ideologia, avere più o meno persone di sesso maschile o di sesso femminile. Pertanto, quanto meno bisognerebbe uniformare la rubrica al testo: se si vuole parlare di genere, si mette genere sia nella rubrica sia nel testo; se si vuole parlare di sesso, si mette sesso sia nella rubrica sia nel testo. Se si sceglie genere, ricordiamoci che il genere è una cosa soggettiva, per cui una persona può benissimo chiamarsi con un nome maschile ma sentirsi donna. Quindi, al momento di presentare la lista, bisogna dire: come ti senti? Ti senti uomo, ti senti donna, ti senti qualcos’altro, uno degli altri tanti LGBTIQ, o RST, e così via? Così diventa problematico l’equilibrio, ma è l’unica cosa che si può fare.
Attenzione, perché qui andiamo per un verso in una società che sposa l’ideologia gender, per cui vi è l’inculcazione di questo (abbiamo anche delle proposte di legge in discussione al Senato e ci sono dei documenti del Governo, con il timbro della Presidenza della Repubblica, che sposano questa ideologia e vogliono imporla nelle scuole); per un altro verso andiamo all’estremo opposto, cioè il modello iraniano, dove le biblioteche sono divise in due sezioni: per le donne i libri scritti dalle donne e per gli uomini i libri scritti dagli uomini.
Io vorrei continuare a poter leggere libri indipendentemente dal sesso di chi li ha scritti e votare i candidati sulla base dell’affidabilità, delle idee e del curriculum di una persona, e non sulla base del fatto che sia un uomo o una donna – cosa che a me, da elettore, non importa assolutamente nulla.